“Are you all right?” La luce bianca è abbacinante e quando mi giro per rispondere non vedo più niente. Immagino comunque che la hostess sorrida, lo fa sempre. “I’ve never seen anything like that.” Neve e ghiaccio fuori dal finestrino, come distese infinite di lenzuola pulite. “Would you like some orange juice?”
Lo chiamano -airbus-. Non mi pare che il nome renda l’idea. Questo aereo non sembra un bus: cinque o sei bus semmai, saldati insieme e sparati in cielo, o una grossa cattedrale postmoderna con le ali. Tuttavia, il grosso oggetto dentro cui mi trovo qualcosa in comune con i bus turistici ce l’ha: sottostà alla generale sciatteria del viaggiatore di lunga tratta che dopo otto-dieci ore si libera delle scarpe, si contorce sul sedile, allunga le gambe in corridoio per decontrarre il nervo sciatico, suda, sbriciola e russa.
Stiamo sorvolando la Groenlandia. Sul monitor di controllo in fondo alla cabina compaiono località dai nomi pieni di doppie: Aasiaat, Atammik, Nuuk, Ilulissat.
Questa cosa (vedere dall’alto se gli orsi polari scivolano davvero giù dai ghiacci che si sciolgono) non sembra interessare nessuno oltre me. I passeggeri vicino ai finestrini hanno oscurato i vetri sperando di far fesso il jet-lag con un crepuscolo artificiale, ma il giorno irrompe comunque forzando le tapparelle chiuse male. I più cercano di dormire, alcuni si tramortiscono guardando serie tv sul monitor davanti al sedile, le hostess distribuiscono cibo insalubre a cadenza regolare, io resto in piedi sul fondo dell’aereo, con la faccia contro il vetro di un oblò a guardare la neve.