Ci eravamo scritti lettere per alcune settimane. Non so come mi avesse trovata, né perché mi avesse cercata. Aveva letto tutti i miei diari, questo lo so, e dunque conosceva di me molto più di quanto io conoscessi di lui.
La conversazione si era lentamente fatta interessate. Lui era un marinaio, di quelli veri, che hanno attraversato in barca a vela l’Atlantico, da una riva all’altra, fermandosi in certe isole su cui ero stata anch’io. Mi aveva raccontato com’è navigare in mare aperto, e come sono le onde lunghe dell’oceano: enormi, ma più rotonde di quelle del mare nostro. Mi pareva di vedere quella luce e quel vento, trasformare l’acqua in giganteschi cucchiai d’argento, e giù, nella conca del cucchiaio: la nave, come un boccone per gli dei.
Il marinaio mi aveva detto di aver visto le balene e anche i capodogli, che sono le mie balene preferite, anche se non sono balene vere. Mi aveva raccontato come appare il cielo quando il mondo, di notte, ti volge la schiena e il mare diventa sangue nero che sciacqua il ponte della nave. Insomma, tutto questo e un sacco di altre cose dannatamente interessanti.
Per molte sere, prima di addormentarmi, avevo immaginato le avventure di equipaggi impegnati nottetempo a catturare il vento con le vele. Così, lettera dopo lettera, l’idea di incontrare il marinaio aveva iniziato a farsi largo e sapevo che lui pensava la stessa cosa.
–Vediamoci per un caffè– è una proposta agile, un pretesto intramontabile, spesso usato per sostituire frasi molto più difficili da dire, quali: -voglio guardarti mentre ridi-; –devo vederti per capire se saprò mettere in salvo la mia libertà- e altre cose così. Tuttavia, la distanza che separava me e il marinaio, avrebbe reso la scusa del caffè un’idea troppo poco credibile, improbabile a tal punto da sortire l’effetto contrario: fare 400 km per un espresso non può non nascondere serissimi secondi fini. -Meglio, a questo punto, essere diretti e comportarsi da vera gente di mare- avevo pensato. Così, avevo lanciato un gioco, e il gioco era un gioco d’azzardo. Le regole ordinatamente redatte prevedevano che scegliessimo una città nel tratto di mondo che ci divideva: una città qualsiasi, in cui nessuno dei due avesse già accumulato troppi ricordi. Lui avrebbe poi cercato un albergo, di qualsiasi tipo: un motel sulla statale o un hotel di lusso, e avrebbe prenotato una doppia.
Sono certa che il lettore scaltro saprà che non è poi così difficile trovare oggidì amori di fortuna, qualora se ne avvertisse il desiderio: 400 km sono troppi per prendere un caffè e anche per ricevere affetto posticcio. Dunque non si trattava di questo, non era questa la finalità del gioco, né c’era qualcosa di squallido nella natura del nostro incontro, ma sì: io e il marinaio avremmo passato la notte insieme. -A fare cosa?- Si chiederà a questo punto il lettore, che se è scaltro è certamente anche attento. Bene, io volevo ascoltare altre storie: amo le storie. Avremmo parlato tutta la notte e se ci fossimo stancati avremmo sempre potuto origliare sui muri, guardare il canale commerciale tedesco alla tv dell’albergo o fare qualsiasi altra cosa avessimo entrambe avuto voglia di fare.
La città era una città qualsiasi, l’albergo un albergo qualsiasi.
Alla reception avevo detto di cercare il mio fidanzato.
“I L M I O F I D A N Z A T O”
Avevo pronunciato il complemento con un certo impaccio. Non usavo questo appellativo da parecchio tempo e frugando nella borsa per cercare i documenti pensai che la bionda concierge dall’espressione impersonale come un blister di aspirine, era stata unica spettatrice di questa mia goffa simulazione di vita domestica.
La città era una città qualsiasi, l’albergo un albergo qualsiasi, la stanza la 258.
Il marinaio mi stava aspettando.
Sarà stata suggestione, ma camminando per i corridoi, verso la camera, mi pareva che tutto oscillasse, come fossi chiusa nella stiva di un transatlantico.
Avevo bussato, la porta era socchiusa: così ero entrata. Lui era lì, nella penombra. Aveva spento la luce o forse non l’aveva mai accesa. Vedevo distintamente la sua sagoma scura stagliarsi contro la finestra: sulla strada i lampioni erano già accesi. “Ciao”, aveva detto cercando con la mano l’interruttore. Una lampadina ad incandescenza aveva occhieggiato nella stanza.
Ci eravamo guardati in faccia sorridendo e poi ci eravamo anche guardati intorno, valutando la possibilità di passare la notte ad incendiare l’odiosa moquette rosso bordeaux che tappezzava la camera.
Gli alberghi mi piacciono molto, così come i campeggi, i villaggi vacanza e altri posti del genere. Tanto più sono kitsch, tanto più mi piacciono. Persone provenienti da chissà dove, fanno la valigia, lasciano le loro case accoglienti e si radunano in posti del genere. Esistenze, altrimenti lontanissime, si sfiorano all’ora di colazione, fra un’accozzaglia di pan brioche, pancetta abbrustolita, yogurt greco e uova fritte. Se questo non bastasse a giustificare la mia fascinazione, c’è la faccenda dell’arredo, il quale palesa tutta l’adorabile fragilità della nostra specie. Un tenerissimo bisogno di normalità che si manifesta nelle piccole cose, procurandomi un’autentica stretta al cuore: il quadretto di maniera che cerca volenteroso di abbellire la parete giallo-nicotina; la poltroncina imbottita di velluto blu, su cui magari qualcuno ha lanciato camicia e mutande, ma che nessuno ha mai veramente usato per concedersi il sollazzo che sembrerebbe suggerire: sedersi alla scrivania in legno impiallacciato marrone per leggere, in tutta calma, un bel libro.
Sto divagando, torniamo nella stanza 258, cercherò di sintetizzare, d’altronde sono certa che il lettore non sia interessato a sapere tutto quello che successe quella notte. Una cosa però voglio raccontarla, prima che il sonno facesse naufragare entrambi il marinaio mi aveva insegnato l’arte dei nodi.
Ammetto che quando lo vidi estrarre dallo zaino il cordino di nylon, l’idea di poter finire assicurata al letto come un grosso tonno allo scafo di una nave, mi sfiorò. Misurai con la coda dell’occhio la distanza che mi separava dal telefono sul comodino, accertandomi che lui non avesse già tagliato i fili, come succede in certi film. L’unica a sapere di questa mia avventura era, come al solito, Valentina, la mia amica di scorribande. Le avevo dato l’indirizzo dell’albergo e anche detto il nome di battesimo del marinaio (quello che lui aveva detto a me). Questo per scansare ogni dubbio in caso fossi finita male veramente. L’idea che qualcuno avrebbe trasformato la stanza con la moquette bordeaux in un plastico, e che cuochi e showgirl si sarebbero accapigliati per dire chi secondo loro mi avesse ammazzata, mi faceva rabbrividire.
Ma i fili strisciavano sotto la carta da parati, regolarmente collegati all’apparecchio. Ricacciai giù il timore guardando gli occhi chiari e limpidi del marinaio che, nel frattempo, si era seduto sul letto a fianco a me, aveva preso il cordino e iniziava a ripiegarlo su se stesso, spiegandomi la cosa come se stesse insegnando a un bambino ad allacciarsi le scarpe. “Immagina che questa sia la tana del lupo”, aveva detto fermando un piccolo cappio fra le dita, “il lupo esce dalla tana, gira intorno all’albero e rientra nella tana”, aveva concluso serrando il nodo.
La gassa d’amante, il nodo piano, il nodo parlato, il nodo margherita… ero riuscita a memorizzarli tutti, scoprendo un’insospettata predisposizione all’apprendimento dell’arte della marineria.
Così, quando la mattina successiva la luce del giorno mi aveva svegliata, mi sentivo un po’ più marinaio di prima.
Lasciando l’albergo, era venuto naturale ad entrambi dirigerci verso il porto. Ci eravamo incamminati lungo la marina, senza l’intenzione di andare veramente da qualche parte.
Il marinaio guardava il mare fumando il sigaro, e fra un tiro e l’altro raccontava altre storie. Avventure di antichi esploratori che volevano conquistare il Polo a dorso di cavallo, senza valutare che sul ghiaccio non ci cresce la gramigna, e che i cavalli scivolano; così i destrieri pattinatori, erano finiti stecchiti e congelati, come quelli nella Macelleria di via Cavour, o almeno così li avevo immaginati io. E ancora, storie di piccole barche con lo scafo d’acciaio, tanto solide da poter navigare ovunque; io me le figuravo lucide come pentole a pressione, le barchette INOX 18/10, impegnate a solcare gli oceani, incuranti del vento e delle correnti.
-Ah, le storie!-
Avevo fatto un tiro dal sigaro del marinaio e mi ero messa a pensare, guardando ora il mare, ora la pavimentazione geometrica della strada.
Pensavo, alle vite avventurose, agli incontri, alla fiducia e al coraggio. A quanto l’audacia sia una qualità profondamente sensata. Non l’incoscienza, il suo opposto: la perfetta coscienza del fatto che vivere seguendo sentimenti fulgidi valga ben più di qualche rischio, la lucida consapevolezza che il tempo andrebbe indossato come biancheria raffinatissima e, sopra, la vita, come una tuta da lavoro.
E che si consumi pure, questa mia vita, ai gomiti e alle ginocchia, a furia di strisciarsi contro il mondo per sentirne l’odore! Che arrivi stropicciata e ben usata alla fine del tempo!