Una coltre grigia e piatta pesa sulla città e assorbe i rumori. Le voci escono sottili dalle bocche dei passanti, come bolle di sapone che aleggiano intorno alle teste e vanno a scoppiare poco lontano.
Fa freddo stamattina, fra dieci giorni sarà Natale.
Arrivo alla costa percorrendo a piedi una via secondaria.
Mentre scendo dalla strada sulla spiaggia osservo la coltre grigia: è arrivata fin qui. È colata dal cielo sulla sabbia e ora serra le strutture degli stabilimenti balneari abbandonati all’inverno.
I capanni stanno stretti in file serrate, uno a fianco all’altro, intirizziti dal freddo.
I colori delle attrezzature contrastano con l’austerità della stagione. Un drappo di plastica scura, pudìco come il panneggio in una crocifissione, nasconde come può la pelle liscia e rosa di una canoa che si scopre ad ogni folata di vento.
Supero i capanni, faccio un passo verso la riva e inciampo.
Mi fermo.
Un occhio grigio e cattivo sporge dalla sabbia e mi guarda.
Mi abbasso per guardarlo anch’io e scavo.
Disseppellisco i resti di uno squalo gonfiabile.
È tutto sbrindellato e un pezzo di coda manca del tutto.
Sul muso del pesce è disegnata una fila di denti acuminati che fanno sospettare che l’animale si sia morso da solo.
Lo osservo attentamente, ne verifico lo stato di conservazione, poi lo fotografo e lo archivio fra i reperti del mare.
I reperti del mare sono gli oggetti rinvenuti in spiaggia, si dividono in tre categorie: cose perse, cose abbandonate e cose rigettate dal mare. Queste ultime, cadute nei fiumi per ragioni sconosciute, seguono il corso dell’acqua in un ciclo idrologico speciale e, se non si incagliano da nessuna parte, finiscono nel mare che le ributta sulla spiaggia alla prima mareggiata.
Osservando i reperti del mare si ricavano dati statistici puntuali che riguardano campi d’indagine importantissimi quali: accelerazione progressiva del degrado culturale in un dato sistema lungo l’asse del tempo t.; capacità del bagnante di concludere gli schemi delle parole crociate; industria cinese e strategia di diversificazione; persistenza delle mode alle stagioni; ricchezza e welfare; scolorimento di plastiche e stoffe; infanzia e vizio; misura media delle infradito da spiaggia; efficacia delle pubblicità; adattabilità dei molluschi alla colonizzazione di materiali sintetici quali il polistirolo e la gommapiuma; potere persuasivo dei nomi dei santi sulle bottiglie delle acque minerali e molto altro ancora.
Trascino lo squalo fino al cassonetto, poi cerco riparo dal vento.
Mi siedo contro un capanno in direzione della spiaggia.
Vengo spesso qui. Non proprio tutti i giorni, non sempre nello stesso punto e non alla stessa ora, ma spesso.
La riva è come una finestra aperta sul confine di uno spazio abitabile, un davanzale lunghissimo adorno di alghe, sassi e conchiglie a cui mi affaccio per guardare fuori: il mare.
Non vedo nessuno per molti minuti, poi qualcosa passa di fronte a me a tutta velocità.
È un cane.
Un levriero per l’esattezza.
Lo seguono, muovendosi contro vento, un uomo, una donna e una bambina.
Il cane si arresta in un punto qualsiasi della spiaggia e inizia a scavare con le zampe, sottili come rametti, finché la buca non è abbastanza grande per infilarci dentro tutta la testa.
Così, piantato in terra, il cane, bruno, magro e storto, sembra un albero secco.
Ma la testa riemerge poco dopo con un sasso fra i denti.
L’uomo lo raggiunge, prende il sasso e lo getta lontano.
Il cane si lancia in una corsa sragionata, ignora la traiettoria del sasso e scompare per sempre dal mio campo visivo.
Torno a guardare la famiglia.
La bambina è infagottata nei vestiti invernali, ha in testa un caschetto azzurro e indossa protezioni di plastica su gomiti e ginocchia. Corre anche lei, ma faticosamente: sembra un piccolo astronauta in fuga da un mostro lunare.
L’uomo, poco lontano la guarda e sorride. Tiene a tracolla due pattini annodati per i lacci.
La donna cammina lentamente, i tacchetti delle sue scarpe si infilzano nella sabbia ed è come se mettesse radici e dovesse sradicarle ad ogni passo. Indossa una pelliccia sintetica e avanza piano contro il vento che le spettina la messa in piega: ha effettivamente le movenze da mostro lunare.
Quando raggiunge l’uomo si ferma e affonda fino alla caviglia. Scosta scompostamente un ciuffo di capelli che le pende sugli occhi, fruga nella borsa e pesca un telefono. Lui fa la stessa cosa: estrae il cellulare dalla tasca. Con un gesto d’intesa i due puntano gli ordigni fotografici verso la bambina e aprono il fuoco. Senza pietà. L’astronauta viene ripetutamente immortalato.
Osservo la scena dalla mia posizione vicino ai capanni e mi accorgo improvvisamente di trovarmi di fronte al ritratto di un’epoca: la mia. Per un attimo la realtà mi salta agli occhi spogliata dell’abitudine e quasi mi toglie il fiato.
Vedo dettagli che prima non notavo. La giacchetta della bambina è decorata di paillette ma consunta ai polsi. Osservo la pelliccia sintetica e le unghie rosse laccate della donna. Faccio caso alla pelle del suo volto che si ripiega stanca all’altezza della bocca, sotto uno strato di fondotinta beige. Guardo meglio i telefonini piatti e impersonali, noto l’abbronzatura artificiale dell’uomo e soprattutto il suo sguardo: è smarrito.
Italia fine 2015. In tv si parla di guerra, cattiva politica, terrorismo, parricidi, scandali e catastrofi ambientali, ma con moderazione per non scoraggiare gli acquisti di Natale. Sui social network si alternano fotografie di cocktail, cuccioli e bambini morti ammazzati. Dalla Cina arrivano navi cariche di plastica, dal Medio Oriente barche cariche di uomini, ogni tanto si rovesciano e la plastica e le persone cascano giù. La corrente non fa differenze, tira sotto ogni cosa. Alla prima mareggiata, quando come oggi si alza il vento, le onde si gonfiano, spumano e ributtano tutto sulla spiaggia, fra i reperti del mare.