Spingo a strattoni il cuscino nella federa pulita. Ancoro le lenzuola al fondo del letto e calmo le onde che si formano, con le mani.
È stato un anno mobile come il mare.
Prendo fiato e mi tuffo, una cosa importante è caduta giù, inizio a scendere. Nuotare è una battaglia verticale, contro il peso dell’acqua che sposto, mi insegnavano a scuola. E mi fa male la testa quando tocco con la mano il fondo.
Muovo la sabbia, ma è buio e la cosa importante non la trovo più. Continuo a cercare finché non ho più fiato e il tonfo del cuore suona duro in testa.
Mi fermo.
Le ultime biglie d’aria mi escono dal naso. Allargo le braccia. Mi arrendo alla fisica e le sue regole mi spingono su.
Butto fuori la testa, la bocca prima, aria! Poi gli occhi, bruciano, non li apro subito. Respiro.
Resto ferma in acqua e la notte passa. Alla prima luce mi stendo a pancia sotto, inclino a lato la testa, prendo fiato e do piano la prima bracciata.
Nuoto lentamente verso un’isola dove le cose finiscono e una volta lì, dalla bocca, mi scivolano fuori i sentimenti, tutti, uno al giorno come uova.
Appoggio in fila l’ultimo dei tre cuscini, sono azzurri, ma non proprio allo stesso modo. Li preferisco così, increspati dai lavaggi sbagliati.
Grazie a chi mi ha tirata a riva, al tempo, alle parole e alle lettere, a chi ha avuto cura di me, a un uomo lago, a un ragazzo vento, a una corsa in bicicletta seduta all’indietro, a una donna concava, a una donna convessa, al coraggio, a una finestra aperta su un altro uomo, immobile e in fiore, alle navi che mi hanno avvistata ma sono andate via, a chi mi ha fatto ridere fino a farmi piangere, ma anche a chi mi ha fatto piangere fino a farmi ridere, perché oggi sono felice.