UNA TRENTINA DI SEDIE DI PLASTICA SCURA – Azzorre – giorno uno

– NOTA: decisamente non un viaggio come gli altri, capirete perché leggendo. Per questa ragione scelgo di pubblicare qui solo tre giorni di diario, il resto seguirà in forma di libro. –

 

Mar Dos Açores è il nome della mia pensione, l’ho scelta esclusivamente per questo, non ho valutato posizione né pulizia né alcun comfort. Il nome sulla réclame e la foto della graziosa facciata di piastrelle verde-azzurro, mi erano sembrati perfetti come un pontile per sedermi e prendere fiato a Lisbona, prima di immergermi totalmente in questa storia.

La luce del pomeriggio scende fin dove può dentro il tunnel della metropolitana, io risalgo in senso opposto ed esco sulla strada per il parco.
È un quartiere piuttosto povero, di case bianche, piccole e asimmetriche, decorate da gialle geometrie solari. Io ho un vistoso zaino in spalla e la faccia di chi non sa dove andare.
Non sono lontana, credo.
Alcuni uomini fumano, appoggiati al muro di una macelleria e mi seguono con gli occhi, senza espressione. Cammino rapida.

Cerco il mio alloggio, ma non sono certa di essere sulla strada giusta e proprio mentre inizio a pensare di essermi persa, inciampo contro un ragazzo fermo di fronte alla facciata dozzinale di quella che sembra essere una vecchia parrucchieria.
Camicia bianca, sorriso, giacca e cravatta, mi saluta accennando un inchino.
Ha l’aria di chi ha appena vissuto un evento grandioso e deve assolutamente raccontarlo a qualcuno. Il suo volto contrasta a tal punto con le facce scure intorno che mi convince, mi fermo.
Jaime è di corporatura piccola, ha occhi neri e buoni, un’età indefinita fra i 20 e i 30 e regala fiori ai passanti. Allunga in mia direzione con entrambe le mani un piatto sul quale sono ordinatamente disposti minuscoli vasi di plastica. Abbasso la testa sulle piante, non profumano, ma sono vere.
Ho il velato timore di chi sta per sottoscrivere un contratto, così prima di sceglierne una, mi volto perplessa verso il ragazzo e lui, felice di poter finalmente svelare il motivo del suo entusiasmo, si rilassa in una valanga di parole con cui mi invita ad entrare nell’edificio alle sue spalle.
Guardo circospetta oltre lui, il sole si riflette sulla vetrina e io non riesco a vedere bene ciò che succede all’interno. Non è una parrucchiera o comunque non lo è più. Jaime mi dice che quella è la sua chiesa e che può mostrarmi quello che fanno.
L’istinto mi spinge ad allontanarmi, immagino che finisca col chiedermi del denaro, così lo ringrazio, “sono appena arrivata”, spiego, “devo ancora trovare il mio alloggio”, mi scuso.
“Puoi appoggiare le valigie dentro, oppure, posso accompagnarti e poi torniamo qui insieme, dove pernotti?”, insiste.
“Al Mar Dos Açores”.
“Che coincidenza, anche io!”

Ho due portafortuna in valigia, sono vecchi caratteri in legno uno chiede “?” e l’altro esclama “!”. In fondo, perché avrei portato me stessa fin qui se non per vivere la mia vita con curiosità?

Jaime mi accompagna, la pensione è proprio dietro l’angolo, poi aspetta in strada che io prenda le chiavi e lasci i bagagli in camera. Solo qualche minuto.

Nel tragitto di ritorno lui cammina più veloce, mentre mi racconta che è brasiliano e che viaggia spesso in Giappone per approfondire gli studi religiosi. È un sacerdote. La sua dottrina ha un’origine orientale, risalente ai primi decenni del secolo scorso.

Di fronte alla vetrina della chiesa-parrucchieria rallenta, mi anticipa verso la porta, gira la maniglia d’alluminio e mi fa cenno di entrare.
Nonostante il sole e la grande vetrata, l’ambiente non è luminoso. Una stanza di media ampiezza, con un paravento e una scrivania all’ingresso. Una trentina di sedie di plastica scura al centro, come una platea semivuota e rivolta in nostra direzione. Alcune persone, sedute in prima fila, ferme a mani giunte, cosicché entrando ho la sensazione di trovarmi esattamente sotto una pala d’altare. Mi volto a guardare, ma alle mie spalle c’è solo la vetrina e, oltre quella, il marciapiede dove prima annusavo fiori. Pregano o forse aspettano, non so dire.
Altre persone, sparse nella sala, stanno sedute a coppie, una di fronte all’altra oppure una dietro l’altra e le restanti sedie vuote, traccia di questi movimenti a due, sono disposte in un disordine che non sembra casuale.

Seguo Jaime che cammina rapido in quella che, viste le circostanze, definirei la navata laterale della sua chiesa.
Si ferma di fronte a una delle coppie, un robusto uomo bianco e una minuta donna nera. L’uomo bianco ha una grossa mano alzata, grosse dita e un grosso anello d’oro, immobile a venti centimetri dalla testa della donna. Jaime si china sul grosso orecchio e bisbiglia qualcosa, l’uomo mi guarda, annuisce e, senza distogliere la destra dal suo gesto aereo, mi porge l’altra mano.
“È il responsabile della nostra chiesa” dice Jaime, “dopo parlerà con te”.
Aspettiamo.

Nell’attesa Jaime mi fa cenno di sedermi su una delle sedie, ne avvicina un’altra, la gira, e si accomoda di fronte a me, la sua faccia verso la mia, “ora ti passo l’energia di Dio”, dice. Congiunge le mani per qualche secondo, poi ne solleva una all’altezza della mia testa, io chiudo gli occhi.
È una benedizione. Penso al mio viaggio, una benedizione capita a proposito.
Quando, dopo alcuni minuti, riapro gli occhi, Jaime mi chiede, a bassa voce, di girare la sedia e ripete il rito alle mie spalle.
Ricevuto lo strano sacramento, seguo Jaime e l’uomo robusto lungo un corridoio sul retro della stanza: una porta, una scrivania, una grande poltrona in similpelle nera e ancora un paio di sedie. L’uomo si accomoda pesantemente e mi invita a fare altrettanto. Si presenta, si chiama Tadeu. Parla italiano e mi concede una lunga intervista in cui enuncia i principi della sua religione, la quale si ripropone, attraverso la canalizzazione dell’energia divina, di costruire in terra un concreto paradiso.
Io ascolto e faccio domande. I propositi sono innegabilmente positivi, nessuno mi chiede del denaro, e questo è altrettanto positivo.
Poi è lui a voler conoscere la mia storia, ascolta attentamente mentre gli mostro la foto di mio padre e gli racconto che sono a Lisbona di passaggio per poi raggiungere Santa Maria delle Azzorre, l’isola in cui morì nell’incidente aereo dell’89.
Tadeu mi guarda fissamente con occhi nerissimi, improvvisamente opachi, io rispondo con la medesima fermezza e capisco di aver guadagnato il suo totale rispetto.
Mi dice che non crede che il nostro incontro sia avvenuto per caso, la loro dottrina ha come principio fondamentale il culto dei morti e la reincarnazione.
“Le persone che muoiono, non scompaiono, si manifestano in noi attraverso i nostri cambi d’umore e ci seguono nel corso della vita”, dice.
Vorrei fare domande del tipo: “ma si manifestano tutti insieme, e hanno tutti lo stesso umore?”. O anche: “e dopo? Una volta che i morti rinascono, restiamo soli?”, ma mi rendo conto che il mio pragmatismo è totalmente fuori luogo. Accetto l’esperienza come una benedizione, faccio ancora un giro nella chiesa, poi saluto Tadeu, Jaime, torno alla pensione e mi metto a scrivere.

-Fare i conti con il lutto è evidentemente alla radice di questo viaggio-. Annoto questo pensiero quando, dopo un’ora circa, sento entrare nell’edificio alcune persone. Due uomini e una donna, credo, camminano per il corridoio di fronte alla mia camera e piangono; piangono e parlano.
Appoggio l’orecchio al legno bianco laccato della porta, non capisco, colgo solo il tentativo di uno di loro di arginare quella piena di dolore: “la gente muore”, dice.

 

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