È la notte di Natale e io sono sotto la doccia. È stata una giornata d’acqua.
Arenys de Mar è un paese sulla costa della Catalogna, verso il confine. Poco oltre Arenys i treni si fermano e tornano indietro.
Il mare in questo tratto di costa consuma la spiaggia in un angolo aperto e scosceso. Al gran galoppo dalla Francia, l’Europa fa una curva stretta, zompa oltre i Pirenei, si riceve in boschi e valli, qui, inciampa e cade in acqua.
Non c’è molto vento oggi, ma il mare sbatte comunque contro la costa con una forza impressionante.
Le onde vestono un lungo strascico perlato che scorre veloce sulla riva. Rimango seduta sulla cresta di sabbia che degrada in acqua per molti minuti a guardare quelle sottovesti candide e sensuali, lanciate, mosse, gonfiate, tirate, strappate, piegate, sovrapposte e infine consunte via.
Quando riprendo a camminare la spiaggia è deserta, solo qualche sagoma lontana si sposta sulla passeggiata che divide la sabbia dalla strada.
A destra l’eleganza del mare, un deserto di materia mobile: molecole che rotolano come palline di mercurio l’una sull’altra in infiniti, irripetibili ordini combinatori.
A sinistra l’amarezza dell’opportunismo: palazzi enormi e sgraziati, condomini logori, alberghi desolati e vecchie case popolari fatiscenti.
Le due percezioni contrastano a tal punto da esaltarsi reciprocamente e mi sento spiazzata come se avessi pescato fra i pezzi di un puzzle sul Sistema Solare, un tassello con l’occhio isterico del Gabibbo.
La tragedia architettonica mi era stata introdotta senza alcuna esagerazione.
Rimango immersa nelle mie considerazioni e, forse sperando di incontrare più avanti una qualche logica urbanistica, raggiungo a piedi Canet de Mar.
Disillusa lascio la spiaggia e affronto di petto il centro urbano, che visto da troppo vicino è, come la maggioranza delle cose, meno impressionante.
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In questa casa fa piuttosto freddo, non c’è il riscaldamento. Mentre aspetto avvolta nell’asciugamano di sentirmi sufficientemente asciutta per infilare il pigiama, ascolto la pioggia che cade fuori dal vetro della finestra. Una parte non affatto minoritaria della mia razionalità vorrebbe sentir scrosciare un diluvio. Allora infilerei i vestiti e certamente correrei in strada.
Arenys ha il nome della sabbia ed è stata costruita intorno al letto di un episodico fiume.
Il fenomeno della -rierada- si verifica due o tre volte l’anno e segue con puntualità le piogge più abbondanti. L’acqua che precipita violentemente sulle cime circostanti, ricade rapida a valle e si concentra in un fiume vorticoso che imbocca con decisione il corso principale della città leccando via ogni cosa dimenticata sul passaggio. Ad ogni pioggia la montagna sopra il paese si consuma un po’ e un ammasso di nuova sabbia, automobili e rifiuti si raccoglie, denso, verso il mare.
Le strade ad Arenys sono progettate per diventare corsi d’acqua incassati fra alti marciapiedi di pietra.
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Tornata dalla mia esplorazione, decido di risalire il percorso che l’acqua fa durante l’alluvione.
Cammino lungo la riera che corrisponde al corso principale del paese e salgo ancora fino al tunnel sotterraneo in cui la pioggia si incanala scendendo dai monti intorno.
È uno spazio largo, basso e scuro, come un’ombra sotto la città. Le due lunghe pareti del canale sono totalmente coperte di graffiti. Ogni venti metri la parte alta si apre per lasciar cadere l’acqua all’interno e oggi, che non piove, geometrie di luce si proiettano sui disegni.
Un ragazzo cammina piuttosto lontano. Il suo cane si sposta avanti e indietro fra me e lui. Mi viene incontro a testa bassa, la lingua fuori e gli occhi mobili poi, come rispondesse ad un ordine indiscutibile, rompe la corsa, piega la massa scura delle spalle e torna sui suoi passi. Lo schema si ripete molte volte. La dimensione prospettica del cane disegna perfettamente la proporzione dello spazio: grande, desolato e affascinante al contempo.
Quando torno sulla strada mi sembra di riemergere da un mondo inconoscibile. Cammino ancora, devo incontrare Irene ed è già quasi buio. Torneremo a casa insieme.