WEST SATAN: il compleanno di Dio

Una forza strana mi spinge a destra e sinistra insieme, così resto ferma. Nello zaino la penna non c’è e comunque non so perché la cercavo. Chiudo lo sportello e mi aggrappo alla chiave, Bob ha detto di stare attenti qui.
La forza strana diventa blu e poi diventa notte. Se ci rubassero la macchina in mezzo al deserto sarebbe un vero casino.

Ale e la Cla sono ancora seduti al tavolo nel piazzale delle roulotte. Sul tavolo c’è un posacenere, poi una fila di caramelle rosa e una busta di marijuana grossa come il pitbull di Jack quando si accuccia.
Tempesta, tavolo zattera, approdo alla panca. Jack scalda una pipetta di vetro con la fiamma, attacca il lato caldo alla cera e l’altro alla bocca, ispira. C’è un ragazzo con un contagocce in mano, ha gli occhi come due pacche di mango e versa LSD sulle caramelle. La forza è nera adesso, appoggio la testa sulle mani per tenerla su. Jack viene da San Francisco, io ci sono stata, le strade sono tutte inclinate e al caffè sulla 24th fanno una torta buona. C’è altra gente, ma non riesco a contare. Il presente ricomincia alla rinfusa, spazzo il tavolo col braccio per farci stare la torta. Un uomo parla di cavalli nani, un altro guarda le tette della Cla, lei ha un vestitino rosa che inizia a starle stretto. Anche Ale parla strano, due tiri appena dalla pipetta di Jack, la Cla no che lei è incinta.

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Slab City è una baraccopoli ad est di Salton Sea che è un grosso lago morto ammazzato dal sale e dai fertilizzanti. Quando la realtà smette di bacillare mi ritrovo in macchina. Ale vaneggia ancora, la Cla guida. Non so dire precisamente quando ce ne siamo andati.

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La storia del lago è più o meno questa: all’inizio del ‘900 gli ingegneri della California Development Company cercano di deviare il Colorado River ma fanno un lavoraccio e si allaga tutto. Si forma un mare in mezzo al deserto e cow boy, indiani, cavalli e tepee finiscono sott’acqua. La zona viene abbandonata, in seguito usata per esperimenti militari, poi abbandonata di nuovo finché a qualcuno non viene un’idea totally American: trasformare la catastrofe in un modo per far soldi. Sono gli anni ’50, sorgono alberghi, campeggi, campi da tennis e spiagge attrezzate. Nel lago ci mettono anche i pesci, arrivano i turisti e per un po’ funziona.

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La chiamano Bombay Beach ma come in un racconto scritto male il finale è prevedibile e l’acqua diventa davvero come quella di certi fiumi indiani. Pesticidi e fertilizzanti si riversano dalle coltivazioni intorno e una melma azzurra si appoggia come una trapunta sul letto del lago. I pesci muoiono, i turisti se ne vanno, gli albergatori anche e tutto viene nuovamente abbandonato.
Stop.

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C’è solo un bar ancora aperto a Bombay Beach. Ha le pareti rivestite di banconote da un dollaro. Il proprietario ha gli occhi chiarissimi e le pupille allungate come quelle dei gatti. Ci ha portato tre esili toast al formaggio con lentezza esasperante mentre raccontava che fa il bagno nel lago da sempre e io ho avuto l’impressione che le cose (le pupille, la lentezza e i bagni nel lago) fossero in qualche modo collegate.

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In quanto a Slab City invece è una frontiera, un avamposto nel deserto e anche nel tempo: un avantempo. Perché, se c’è, Dio fa l’albergatore e quando ci presenterà il conto per questa vita a quattro stelle forse sarà così che vivremo: non più consumatori ma raccoglitori, riadattatori, arrangiatori, visionari. Per questa ragione (e anche per strappare qualche dollaro ai turisti) a Slab City c’è chi si impegna quotidianamente a lusingare l’Altissimo. La chiamano Salvation Mountain ed è alle porte della città: una colata immensa di gesso e vernice. Pare una torta farcita che continua a lievitare e, come se fosse sempre il compleanno di Dio, sulla torta c’è una scritta arcobaleno che sicuramente si vede bene dall’alto: GOD IS LOVE.

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Non tutti quelli che vivono a Slab City ci stanno perché desiderano scappare dalla società, qualcuno deve, qualcuno ci arriva per caso e semplicemente ci rimane, fine della storia.

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Jack ha detto di sentirsi libero, non so se lo sia davvero. Credo sia felice, questo sì.
Sta a West Satan, il lato della baraccopoli opposto ad East Jesus: l’altro lato. Vive di quello che trova, della marijuana che riesce a vendere e del sussidio mensile che il Governo carica sulla sua carta da senzatetto per comprare da mangiare.

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Raccoglie specchi rotti e altre cose abbandonate negli alberghi fatiscenti sul lago. Con le cose che non servono ad arredare le roulotte ci fa delle sculture e così dentro la città ce n’è un’altra fatta di scenografie assurde. Gli specchi invece li spacca in pezzi piccoli, i pezzi li incolla alla parete della sua baracca e al tramonto lo sterrato davanti alla roulotte sembra una pista da ballo.

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Poi, quando il sole sparisce del tutto, Jack osserva il cielo perché di notte sul deserto è buio davvero e oltre alle stelle si vedono le astronavi, dice.

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“Do you miss anything Jack?”

È l’ultima domanda che ricordo di aver fatto prima di sedermi al tavolo, occhi bassi e l’attenzione di entrambi che fa attrito con la polvere. Silenzio, un ghigno che sembra un sorriso, o più probabilmente il contrario, e una risposta senza frasi accessorie: “yep, the restaurants”.

Poi avevamo fumato, il tempo iniziava contrarsi e a generare in un parto psicotropo altro tempo e altro spazio. E per il resto so solo che cercavo una penna per prendere nota di tutto ciò.

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