NIGHT CLUB

Quando ci decidiamo a scendere dalla macchina sono quasi le 4.
Valentina mi dà un’ultima occhiata e aspetta in piedi nel buio del parcheggio che io prenda la borsa e chiuda lo sportello. Fa molto freddo stanotte.
Siamo rimaste a lungo chiuse in macchina ad osservare le auto svoltare e fermarsi nel buio. Gli uomini arrivano da soli o in piccoli gruppi. Attraversano con decisione il piazzale, salgono un paio di gradini e superano una porta su cui lampeggia un’insegna dalla luce azzurra abbacinante: NIGHT CLUB.
Nessuno di loro è, per così dire, di bella presenza. Ci faccio caso pensando alle parole dell’uomo che ci ha indicato il posto. Ha detto che se ci avessero fatto entrare gratis, si sarebbero aspettati in cambio (bada bene, non per obbligo, ma per buona cortesia) che fossimo carine con i clienti del locale.

È la notte di Capodanno. Io e Valentina ci siamo messe in macchina alcune ore fa, con una valigia piena di vestiti. L’idea è girare per feste diverse. A me piacciono le storie, e anche il fatto che le persone possano essere tanto differenti fra loro. Quanto a Valentina, non so perché mi abbia seguita, ma è la compagna perfetta: estroversa, curiosa e flessibile.
Avremmo voluto aspettare l’anno nuovo al circolo delle bocce, ma gli anziani non ci hanno sentito suonare il campanello. Così abbiamo camminato fino a un ristorante sul mare. C’era una festa. Allo scoccare della mezzanotte Valentina stava cercando invano di convincere il buttafuori a farci entrare, mentre io camminavo intorno all’edificio senza riuscire a non guardare oltre le vetrate. Il primo stato d’animo provato quest’anno: senso di indiscrezione. Dentro il locale: fumo artificiale, Disco Samba e luci blu. Una donna con una coroncina argentata spalmava panna sul braccio tatuato di un ragazzo e qualcuno urlava al microfono –vai col trenino-.
Il primo brindisi l’abbiamo fatto molto tempo dopo, con mezza birra a testa in un locale vicino alla stazione. Per bere un bicchiere senza pagare l’entrata Valentina si è inventata di dover salutare un’amica. Giulia, mai esistita, mora con capelli a caschetto. Nella sala c’erano ancora gli avanzi del cenone. A un lato del tavolo, fra persone vestite ragionevolmente, un ragazzo mascherato da Putin parlava con un altro ragazzo, mascherato da Mazinga Z. Conversazione surreale.
Poi c’è stata la festa gothic: piercing, sudore, finta pelle, musica molto alta. Fra le persone mi ricordo in particolare di un uomo con la faccia buona e una maglietta con la scritta -la gente deve morire- e di una ragazza vestita come Minnie, ma a lutto.

E ora siamo qui, ferme davanti all’insegna lampeggiante, decise a vedere cosa succede in un night la notte di capodanno.

Ai lati dell’entrata ci sono due cani di pietra. Giro la maniglia di alluminio e apro la porta. Nell’anticamera piccolissima, un uomo anziano sta seduto alla cassa e parla con un altro uomo che fa un passo verso di noi appena si rende conto che non assomigliamo ai clienti abituali.
Colto di sorpresa, ci chiede cosa siamo venute a fare. Teme, spiega, che potremmo essere venute a cercare i nostri uomini finendo per fare una piazzata.
Valentina dice che vogliamo bere qualcosa, (a proposito, la mia amica non si chiama veramente così, Valentina è il nome che si è inventata stanotte per presentarsi ai clienti del night). Io ammicco senza dare troppe spiegazioni. Il nostro piano per uscire da situazioni scomode è fingerci due lesbiche in cerca di diversivi.
Ci squadriamo reciprocamente. Lui indossa una camicia bianca con giacca e papillon. È abbronzato fuori stagione e porta i capelli tirati all’indietro con il gel. Sembra in partenza per una crociera e mi ricorda Nino Frassica quando cantava Cacao Meravigliao.
Guardo Valentina. Devo ammettere che, nonostante la quantità di vestiti che abbiamo in valigia, ci siamo conciate in modo bizzarro. Lei: pantaloni stretti dorati, maglioncino nero e dorato, bracciali dorati attorcigliati ai polsi e colbacco di finto pelo. Io: camicia di raso nero, sottoveste, calze e tacchi alti. Esagerate. Improbabili come due agenti della DIGOS pronti per una retata, convinti di passare inosservati con giaccone di pelle, occhiali da sole e bandana in fronte.

Titubanti i due uomini ci lasciano entrare.

Facciamo due passi nel locale e una ventina di occhi si girano verso di noi. Ci avviciniamo al banco e ordiniamo da bere. La prima cosa da fare in circostanze del genere è cercare di ottenebrarsi in giusta misura.
L’ambiente è démodé, molto squallido e di conseguenza molto interessante. Cinque o sei divanetti zebrati ai lati della stanza. Due frustini da equitazione appesi alla parete, incrociati come fucili da caccia sotto un trofeo.
Sopra un palchetto rivestito di specchi, sono piantati due pali da lap dance. Nessuno balla. Luci multicolore si proiettano in tutte le direzioni e mi fanno tornare alla mente un ricordo vecchissimo a cui non avevo più pensato: DJ Super X. Quella figura spaventosa con la faccia da mirror-ball che presentava in tv Superclassifica Show terrorizzandomi quando ero una bambina.

Ci sediamo al bancone.
Una ragazza in mutande e reggiseno si struscia meccanicamente contro la gamba di un uomo molto brutto seduto a fianco a noi. Né lei, né lui, sembrano particolarmente coinvolti nella cosa. Entrambi ci fissano.
C’è un altro uomo seduto al banco, ha gli occhi sottili come due asole, li muove lentamente qua e là, senza girare la testa.
La ragazza si volta di tanto in tanto verso l’orologio appeso in un angolo della stanza. Credo che stia calcolando il tempo delle sue prestazioni perché allo scoccare del minuto si scansa inespressiva per andare a spegnersi su uno sgabello del bar.

Due uomini si avvicinano a noi. Sono curiosi di sapere cosa ci facciamo qui e ben contenti di trovare donne che non chiedono di essere pagate per fare due parole. Sono i più giovani qui dentro e sono in vacanza. Li chiamerò Fabio e Davide per rispettare la loro privacy e anche perché non ricordo assolutamente i loro nomi veri.
Passata mezz’ora, inizio a temere di essere cacciata via in malo modo: Valentina balla scatenata intorno al palo della lap, i due parlano con me pur di non pagare le ragazze e sono ancora al mio primo e unico drink, quindi non consumo.
L’uomo abbronzato, che è evidentemente il titolare, armeggia con una bottiglia di cognac dietro al bancone. Fabio e Davide si lamentano a gran voce del malfunzionamento del locale. L’uomo se ne accorge e i tre iniziano a discutere. I ragazzi cercano penosamente di difendere i propri diritti di consumatori: non vogliono pagare per parlare con le donne e si lamentano del fatto che le ragazze non ballano.
Il proprietario spiega cattedratico che il -sistema Night- funziona così. “È stato inventato ben prima che voi nasceste”, sottolinea. “Le ragazze sono nei privé con i clienti che pagano. Sono di là, stanno lavorando, per questo non ballano”, incalza, “ne ho sei”, dice, come parlasse di animali da appartamento, poi fa una pausa. “… non sono molte…”, confessa, smorzando il tono della conversazione, “… ma il problema vero è che di questi tempi le ragazze non si trovano… non lo vogliono fare più…”, conclude malinconico.

Domando all’uomo da quanto tempo fa questo lavoro. Lui risponde che è il proprietario del night da 9 anni.
Mentre parla noto i ritratti fotografici alle sue spalle, sulla teca dei gin. Donne. Sono riprese da uno strano punto di vista, un specie di -piano americano ribaltato-, ovvero da dietro e dal basso, con la testa tagliata fuori dall’inquadratura.
“E prima?”, chiedo.
“Prima gestivo un locale per gli scambi di coppia”, risponde con orgoglio.
Fa un gesto a una delle ragazze che è appena entrata nella stanza. Lei sale sul palco e inizia a ballare.
È una ragazzina.
L’uomo dice che è ucraina e che ha 19 anni.
Cerco di crederci.
Se ignoro il contesto, smetto di chiedermi dov’è la sua famiglia, quale motivo l’ha portata qui e se c’entra con una guerra di cui non si parla più, riconosco che è molto brava. Si lancia sul palo gambe all’aria e scivola giù roteando come un seme di acero.
L’uomo con gli occhi ad asola la guarda con triste mancanza d’appetito, ma io e Valentina l’applaudiamo forte. Lei se ne accorge, è sorpresa e per un attimo smette di ammiccare. Sorride contenta di avere finalmente un pubblico vero e accenna un inchino verso di noi.

Quando ce ne andiamo, nella penombra, su uno dei divanetti zebrati vicino all’uscita, c’è un uomo anziano. Tiene una ragazza seduta sulle ginocchia come farebbe un nonno premuroso, ma non canta filastrocche, le ha scansato il reggiseno e ride sguaiatamente.

Usciamo. L’aria fredda mi dà sollievo. È quasi mattina.
Sono felice di essere libera di andarmene e di aspettare la prima luce dell’anno nuovo lontano da qui.

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