Oggi L. si sente stanca. Mi hanno detto che è sempre così sul finire della settimana. La sua pelle, sottile e bianchissima, vira d’azzurro intorno agli occhi.
Le aule sono tutte occupate, ma l’ultima dopo i bagni, in fondo al corridoio, ha la porta aperta. Entro nella stanza e L. mi segue lentamente. Le luci al neon lampeggiano un paio di volte prima di accendersi.
Chiudo la porta.
È la vecchia aula di scienze, ha l’odore che hanno i posti in cui le finestre vengono aperte di rado perché non ci entra quasi mai nessuno.
Banchi verdi e piccoli, uno scheletro appeso in un angolo e una lavagna su cui è scritto un problema: indicati una serie di dati, il problema chiede di determinare chi fra Marco e Luca vincerà una gara podistica. Ho la sensazione che Marco e Luca siano gli unici ad essere mai entrati correndo qui dentro.
Sugli scaffali sono appoggiati cinque o sei microscopi e una serie di vecchissimi strumenti di misurazione. Nelle teche, fra le altre cose, è chiuso il modello in grande scala di un occhio con una grossa iride azzurra e opaca: sembra un vero-occhio-finto più che un finto-occhio-vero. C’è anche un orecchio, gigante, e poi un busto, scorticato e sezionato, da cui sono rotolati fuori tutti gli organi tranne un polmone. Mentre L. si siede e cerca il quaderno, faccio scorrere il vetro della teca e provo a sistemare le cose, ma gli organi sono rovinati e la mia conoscenza dell’anatomia interna è abbastanza approssimativa, così la tanatoprassi ha risultati piuttosto deludenti.
Richiudo tutto e mi giro.
L. mi aspetta seduta guardando immobile davanti a sé. Mi siedo anch’io, le faccio una carezza e prendo il quaderno di matematica.
L. esegue meccanicamente gli esercizi con il pallottoliere: 18 – 16, aggiunge diciotto palline, ne toglie sedici e conta; 17 – 7, aggiunge diciassette palline, ne toglie sette e conta; 10 + 5, aggiunge dieci palline, poi altre cinque, conta e così via.
È così stanca che anche il cipiglio che la caratterizza, e che la porta di tanto in tanto ad accasciarsi a terra fingendo malori, è assopito.
Finita la pagina degli esercizi chiudo il quaderno. Mi affaccio sul corridoio per vedere se l’aula con i computer si è liberata. È l’ultima ora e vorrei farle ascoltare della musica classica.
Quando rientro L. è in piedi vicino alla finestra e sta parlando al telefono, a un finto telefono, con un certo Giovanni. Gesticola animosamente e quando la finta telefonata finisce lei ha un’espressione contrariata.
“Cosa è successo?”, chiedo.
“Sono arrabbiata.”
“Con chi sei arrabbiata?”
Oggi mi sento stanca anch’io, stare con lei e con gli altri ragazzi mi piace molto, ma questo lavoro mi è saltato addosso di peso.
“Prof Cecilia… Con la mia testa…”, si interrompe e si batte un pugno sulla fronte, “…con la mia testa… che non capisce niente”.
Le fermo la mano e l’abbraccio, sperando di esserle troppo vicino perché possa accorgersi che sto piangendo.