Era arrivato una mattina dei primi giorni di settembre insieme all’aria che iniziava a cambiare, umida e stanca come dopo una corsa al sole. La sua casa, in una frazione vicina, era stata demolita per fare spazio a una grossa strada statale e lui se n’era andato con le cose, come le cose.
A dire il vero non sono del tutto certa che il motivo fosse l’apertura di una strada, la storia della casa me l’ha raccontata confusamente come il resto, in un dialetto stretto e gravemente distorto. E. è affetto da una qualche deformazione, alla lingua credo. Tutti i suoni che pronuncia si approssimano in vocali smussate: niente T niente V niente R.
Aveva occupato le stanze vicino alla stalla stringendo un qualche moderno accordo di mezzadria col proprietario della casa. Aveva portato dentro i suoi vestiti e messo fuori, sotto i rami del gelso, due bombole del gas vuote e una poltroncina in tela marrone destinata a gonfiarsi con la prima acqua d’autunno.
Nelle settimane seguenti E. aveva impiantato un grosso orto preparando il terreno dove prima c’erano i vecchi ripari per gli animali.
Lentamente era arrivata l’estate e lunghi filari di pomodori si erano schierati drittissimi al sole. Poi l’inverno di nuovo: cavoli.
Il vecchio capanno del maiale era diventato un riparo per le galline: una porta e un recinto intorno al fico.
E. non le ammazza le galline, non ci riesce. Intendiamoci, le bestie muoiono comunque, ma le uccide qualcun altro e quando succede lui non vuole guardare, va a lavorare più lontano nell’orto. Questo per via di un brutto sogno. Me l’ha raccontato una sera sotto il portico guardando con agitazione verso la strada.
Nel sogno lui aveva un coltello in mano e c’era un bambino. Non ho capito altro.
Oltre alla storia del coltello un’altra cosa mi ha colpito. Quando E. è arrivato non si preoccupato di non avere il riscaldamento né del fatto che la sua stanza fosse stata ricavata in un deposito per le granaglie e che grossi topi grigi ci entrassero ancora in cerca di cibo. L’ho visto agitarsi veramente solo quando ha avuto problemi con l’istallazione dell’antenna TV.
La questione la capisco meglio solo adesso che l’osservo dal buio del giardino oltre il vetro della finestra di casa. Lui dentro io fuori. È una sera di febbraio, la luna è alta nel cielo. Nella stanza illuminata ci sono un tavolo e una sedia, vestiti, avanzi, attrezzi, cassette di patate e una Madonna in gesso. Lui è seduto di spalle, piegato in avanti a scaldarsi al camino. Non mi ha vista. Il televisore è di fianco al frigorifero, un quiz in prima serata: il presentatore e un concorrente dagli occhi porcini ridono fragorosamente, li sento da qui, il pubblico applaude.
E. non guarda, non ride, continua a fissare il fuoco. Ciondola sulla sedia con le mani contro la fiamma.
Ho un fremito, non dovrei osservarlo… sono venuta per dirgli una cosa. Busso sul vetro. Non sente. Busso ancora. Si alza inquieto sgranando gli occhi come una tasso abbagliato dai fari e apre la finestra.
“Sono io, volevo dirti che nella stalla, per terra, ci sono due conigli morti… li hai visti?”
“j’èn giti, j ho lasciat malì per i gat”