COME UN CORO DI BAMBINE – Olanda – episodio quinto

Dalla cima di una torre altissima, detta la Vecchia Grigia, guardo il sole sparire oltre la pianura mentre ascolto il concerto più sonoro che mi sia mai capitato di sentire.
La Vecchia Grigia è l’ultima delle tre torri su cui sono salita oggi. Come in uno di quei racconti con la morale in fondo, l’ultima è la più alta delle tre.

Per soffocare i bisticci fra Stato e Chiesa, il ligneo pettine della diplomazia olandese ha spartito i terreni con una netta scriminatura, da una parte chiaramente: navate e altari a Dio, campanili e organi al popolo. Le torri sono quindi della comunità che può rifugiarvisi in caso di inondazione. “A flood is a good reason to believe in God and enter a church, isn’t it?”, aveva detto ironico Joop seguendo il sentiero fra le lapidi di un piccolo cimitero.
Io lo ascoltavo guardando la campagna intorno che qui ha il colore verde delle cavallette. La stola di umidità che fino a poche ore prima pesava sui campi si era dissolta. Di questa restava l’immagine postuma di una perfetta percezione spaziale, descritta dai corpi in dissolvenza del bestiame: sagome scure, sparse in prati grandissimi, gradualmente cancellate via dalla nebbia.
“What time is it?”, aveva domandato Joop di fronte al portone di legno del campanile.
2 e 17 del pomeriggio: mancavano 13 minuti all’attivazione automatica del battente che percuote la campana. Potevamo salire.
Dentro la torre solo una lunghissima scala a pioli di legno nudo, molto più lunga di ogni altra scala a pioli con la quale io avessi mai avuto a che fare. Guardavo l’apice della scala poggiare su alcune assi di legno che fungevano da ponteggio per una seconda scala, più piccola, che si intravedeva dal basso.
In viaggio entro evidentemente in uno stato di coscienza potenziato perché non ho esitato un solo istante quando Joop mi ha fatto cenno di salire.
L’elefantina colata metallica pendeva immobile sulle nostre teste. È stata forse la prima volta che ho guardato veramente una campana.

Eravamo tornati in città che il freddo del pomeriggio iniziava a farsi più pungente. Fermo sulla strada, ai piedi di un grande campanile di mattoni, Joop cercava con gli occhi fra i passanti. Quando un uomo alto e sottile aveva svoltato l’angolo, Joop si era mosso con decisione verso di lui. Auke si era presentato con la cordialità stemperata che hanno gli uomini del nord, prima di entrare nella torre e farci strada sulla scala che conduce al sottotetto.
Auke nella vita suona le campane. Il termine non è impropriamente usato, Auke non sbatacchia nulla. Nella camera alta del campanile Auke si era tolto la giacca, si era cambiato le scarpe e si era seduto dritto alla tastiera. Aveva aperto la partitura: Verdi. Un respiro più profondo e aveva iniziato a suonare con una grazia infinita le quaranta campane che, fuori, rispondevano docili e giudiziose come un coro di bambine.

Sulla Vecchia Grigia, la torre su cui mi trovo ora, le campane sono ancora di più e anche qui ascolto Auke suonare.
Passando oltre la botola che porta all’esterno, il suono esplode. È ormai buio sulla città.
Quando il secondo concerto per campanile termina, rientro nella stanza. I due uomini parlano, in piedi sotto una lampadina accesa.
Prima di tornare al mio destino non amplificato Auke mi lascia rintoccare qualche nota.
Mi siedo alla tastiera e spingo uno dei lunghi martelletti di legno chiaro che innescano le giunture del complesso meccanismo di tiranti metallici: dito, martelletto, tirante, tirante, tirante, tirante, batacchio, campana.
Il suono riverbera rotondo: SDONGH DONGH ONGH NGH GH H.

Penso alle facciate rosse delle case, penso al suono che esonda dal campanile e cola giù sulla strada. Un cavallone che sbatte sui muri, rifratto in aritmie disordinate ed entra nelle case. Attraversa i vetri nudi delle finestre, che lo educano, lo filtrano, lo raffinano, rendendolo più adatto all’ora della cena. Dentro le case, le persone: chi sta leggendo in ritardo il quotidiano di oggi, chi lava i piatti, chi litiga, chi sta facendo l’amore. 

Tutti sentono il mio suono che attraversa la città e atterra stanco sull’acqua del canale.

 

 

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